Soci e contributi

Come pagano i contributi i soci?

Molto spesso a livello
professionale si trova molta difficoltà a capire quanti e quali contributi deve
pagare un socio di una società, di qualsiasi natura si tratti.

Nel contempo è naturale capire
come un socio di una società possa prendere i suoi giusti compensi.

Come ben sappiamo ogni cosa ha
un prezzo: per lo stipendio è il pagamento dei contributi.

C’è da dire che il caos a riguardo non è indifferente. Le norme sono davvero molte ed inoltre mutano costantemente. Tracciare una mappa definitiva è difficile, ma si può fare qualche passo avanti.

Il Socio d’opera: come paga i contributi?

Come abbiamo visto brevemente nelle premesse, i soci, come i dipendenti e i collaboratori esterni, vanno giustamente retribuiti. Che sia tramite gli utili, o grazie a dei compensi, il socio deve avere come un qualsiasi lavoratore il proprio emolumento.

E’ inevitabile parlare di retribuzione senza parlare di contributi.Per tracciare la mappa è fondamentale capire con a che titolo il socio può lavorare all’interno delle società.

Il primo è sicuramente il socio d’opera, ossia colui che entra a far parte di una società (o figura giuridica) apportando il proprio lavoro come contributo principale. La figura del socio d’opera è dettata principalmente dal codice civile, art. 2247. La definizione è: il socio d’opera offre le sue capacità manuali ed intellettive al fine del raggiungimento dello scopo sociale.

Si presuppone che il socio d’opera sia una figura altamente specializzata, al quale partecipa al lavoro abitualmente e in modo continuativo. E’ quindi considerato una figura a tutti gli effetti di dominus maxima all’interno dell’organico operaio, al di sopra delle gerarchie dettate dal lavoro dipendente.

L’iscrizione all’INPS Gestione AC (artigiani e commercianti) del socio d’opera è regolamentata dal diritto dall’articolo 1, comma 203, L. 662/1996.

Ovviamente devono intervenire i
requisiti già sopra anticipati:

  1. Abitualità: ossia il socio che si scrive alla cassa AC deve svolgere l’attività di socio lavoratore in modo abituale. Il limite è assimilato al paragone con il lavoro dipendente, pertanto per considerarsi abituale deve coprire almeno orario part time o che comunque il socio d’opera in questione apporti un contributo considerevole manuale ed intellettuale alla società.
  2. Continuità: ovviamente direte, “è un socio può fare quel che vuole”. Verissimo, ma per con espletare i requisiti come per l’abitualità, il socio d’opera dev’essere continuativo nel suo lavoro.

Il socio che sia artigiano o
commerciante paga due quote INPS distinte tra loro:

Quota in misura fissa: è
prevista una quota da versarsi in 4 rate annuali (maggio, agosto, novembre e
febbraio) per un totale di c.a. 3.777. Le quote devono essere versate
all’Istituto mediante il modello di pagamento unificato F24

Quota eccedente il reddito
minimale: superata una certa soglia di reddito (per il 2019 € 15.710), il socio
deve versare una quota percentuale sulla differenza di reddito pari a:

COMMERCIANTI

  • 24,09 % per titolari e collaboratori;
  • 21,09 % per collaboratori di età non superiore
    ai 21 anni.

ARTIGIANI

  • 24,00 % per i titolari e per i collaboratori;
  • 21,00 % per collaboratori di età non superiore
    ai 21 anni.

Il contributo, sul reddito eccedente il minimale sopra riportato, deve essere calcolato, tenendo conto della totalità dei redditi d’impresa prodotti nell’anno d’imposta e dichiarati nel modello unico.

Il socio dipendente

Il socio che si trova in un
contesto giuridico può essere inquadrato in qualità di dipendente.

Questo è possibile nelle figure
societarie e non nell’impresa famigliare, in quanto verrebbe meno il legame di
unità sociale.

La qualità di dipendetene, come
voluto dall’art. 2094 del codice civile, presuppone un rapporto di
subordinazione verso la società, la quale si occupa della sua assunzione,
dell’erogazione del compenso e del versamento agli Istituti previdenziali dei
suoi contributi.

Prendiamo ora la definizione di
socio, la quale troviamo all’art. 2247 sempre del codice civile, al quale
espleta la figura de socio come un “contratto
di società come quel contratto intercorrente tra due o più persone che
conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica
allo scopo di dividerne gli utili.”

Ragionevolmente ci troviamo
innanzi ad un bivio dove:

  • Il socio è colui che detiene il controllo della
    società;
  • Il dipendente è colui che subisce i voleri della
    società sotto compenso.

E’ evidente che le due figure
collidono tra di loro.

Infatti a tal proposito, la
giurisprudenza si è più volte espressa dando degli importanti chiarimenti.

I dubbi sono sfatati dalla valutazione preventiva della tipologia di partecipazione che ha il socio nell’organico sociale.

Incompatibilità tra lavoro dipendente e rapporto societario

In parole povere dobbiamo
rifarci alla normativa che regolamenta la tipologia di partecipazione, se qualificata o meno.

Per partecipazione
qualificata
 si intende una partecipazione societaria di peso
rilevante, ovvero:

  • per una società quotata in mercati
    regolamentati italiani o esteri,

    • il possesso superiore al 2% dei diritti di
      voto in Assemblea ordinaria,
    • oppure il possesso superiore al 5%
      del capitale sociale;
  • altrimenti, per una società non quotata in
    mercati regolamentati,

    • il possesso superiore al 20% dei diritti
      di voto in Assemblea ordinaria,
    • oppure il possesso superiore al 25% del
      capitale sociale o patrimonio.

La definizione è ai sensi
dell’art. 67 T.U.I.R. (Testo Unico delle Imposte sui Redditi, d.P.R. n.
917/86).

La giurisprudenza, si è
espressa più volte dando parere negativo sui rapporti di subordinazione con
quelli societari, basandosi sulla norma sopra esposta.

Infatti un socio che detiene il
40% di una società, inevitabilmente ne detiene il controllo, pertanto lo stesso
non potrà essere dipendente di se stesso.

La figura del dominus maxima, attribuita al socio non
è affiancabile a quella di gregario del rapporto dipendente-società.

Possiamo quindi dire: il socio che detiene il controllo di una società dovrà essere inquadrato come socio d’opera (iscrizione gestione AC INPS) ma non assunto come dipendente.

Il cumulo contributivo del socio srl amministratore

Abbiamo visto che il socio di
srl e amministratore non può essere alle dipendenze della stessa.

Tuttavia dal momento che
l’amministratore svolge l’attività lavorativa in modo prevalente e continuativo
è soggetto all’obbligo contributivo Artigiani e Commercianti IVS.

Facciamo una premesse, se
ancora non lo si è detto esplicitamente: il fatto di lavorare come socio non
toglie la possibilità dia vere un emolumento come amministratore, se previsto
dallo statuto, ne viceversa.

Vediamolo con un caso pratico:

Il
socio della Alfa srl, è anche amministratore. Detiene il 40% delle quote. Il
CDA è formato da lui e il suo socio.

Per prima cosa distinguiamo
come vengono ripartiti i compiti.

Il
socio, sì fa l’amministratore, ma svolge attività di manutenzione per conto
terzi per conto della Alfa srl.

Il socio in questione ha quindi
due compiti distinti:

  • Il compito da amministratore del CDA
    • Il ruolo di manutentore operaio all’interno
      della società Alfa srl

In ordine: il socio come
amministratore può avere un compenso in quanto è alle dirette dipendenze del
CDA formato da lui e il suo socio.

Come socio mentre non può
essere assunto in quanto la sua partecipazione qualificata glie  lo impedisce.

Tuttavia il socio deve
iscriversi alla Gestione previdenziale artigiani e commercianti, in quanto
svolge l’attività di manutentore in modo prevalente e continuativo.

Qui nasce il problema
normativo, in quanto il nostro socio sarà soggetto a doppia contribuzione:

  • In qualità di amministratore dovrà versare i
    contributi nella gestione separata INPS (25,72%);

    • Come socio dovrà versare i contributi fissi ed
      extra soglia come socio d’opera

Questo punto è frutto di una
circolare INPS (78 del 14/05/2013) dove l’Ente ribadisce il concetto di non
cumulabilità tra i due ruoli.

Il tutto viene inoltre confermato dalla Cassazione 17076/2011.

Contributi soci srl eccedenti il minimale di reddito

Il contributo eccedente il
minimale, o extrasoglia è dovuto anche dai soci lavoratori delle srl.

Come abbiamo visto ampiamente
nei capitoli precedenti i soci lavoratori, tenuti all’iscrizione alla Gestione
Artigiani e Commerciati, pagano i contributi in misura fissa.

Abbiamo visto poi che i soci di
SAS ed SNC, nonché delle imprese familiari pagano un contributo eccedente il
minimale di reddito pari al 24% circa.

L’INPS ha chiarito il metodo di
calcolo con una Nota qui sotto riportata:

“Per
i soci lavoratori di S.r.l., iscritti alle Gestioni Previdenziali degli
Artigiani e dei Commercianti, la base imponibile, fermo restando il minimale
contributivo, è costituita dalla parte del reddito d’impresa dichiarato dalla
S.r.l. ai fini fiscali ed attribuita al
socio in ragione della quota di partecipazione agli utili, prescindendo dalla
destinazione che l’assemblea ha riservato
a detti utili e, quindi, anche se
non distribuiti ai soci (importo del rigo RN1 meno l’ importo del rigo RN5 del
modello Unico società di capitali, rapportato alla quota di partecipazione del
socio indicata nel quadro RO). Questa base imponibile rileva, comunque, non
oltre il limite del massimale contributivo.”

E’ stato parallelamente chiarito dall’INPS che la mera
partecipazione al capitale, non costituisce motivo per il pagamento dei
contributi ne fissi ne extrasoglia.

Detto punto è confermato da una sentenza della Corte di
Appello di Milano, la n. 671/2019, dove i Giudici sentenziano:

La mera partecipazione quale socio di capitale (e non lavoratore) ad una
società di capitali non può qualificarsi reddito di impresa e pertanto il
relativo reddito non può entrare a far parte della base contributiva.”

La sentenza è molto recente
risale a Maggio del 2019, manca ancora la Cassazione. Vedremo con il tempo se
l’INSP chiederà revisione in terzo grado.

Recentemente la norma sulla
tassazione degli utili legge n. 205/2017 è notevolmente cambiata in quanto chi
possiede una quota in società a responsabilità limitata, l’utile diviso viene
tassato alla fonte e non concorre a formare base imponibile ai fini del calcolo
dei redditi d’impresa.

Tornando al punto, per il socio
lavoratore, anche se il CDA delibera che l’utile non sia ripartito tra i soci,
lo stesso è obbligato a versare la sua quota di INPS eccedente il minimale
relativo alla quota di suo possesso.

Questo chiarimento mette in
risalto il comportamento antielusivo dell’Ente, il quale presuppone a priori
che gli utili possano non essere divisi per questioni meramente tributarie e
non per decisioni di consolidamento del patrimonio aziendale.

Su tale punto ci saranno in futuro non poche controversie.

INPS: errori e ricorsi

L’INPS, come tutti gli enti, non ha sempre ragione. Numerose Cassazioni favorevoli lo dimostrano.

Molte volte i soci di società, piuttosto che i titolari di ditte, sono costretti a pagare contributi anche quando non dovuti, per errori materiali in fase di iscrizione o per inesattezze dell’INPS.

Immaginiamo un socio di una Società e anche titolarre di un’impresa individuale, che riceve una cartella di pagamento relativa ad un importo generato dall’INPS per errore in quanto è stato iscritto due volte come Commerciante.

Come vuole la norma, il pagamento del contributo minimale può essere pagato per solo una posizione.

In questo caso il contribuente ha diritto che gli venga sgravato l’importo relativo al pagamento maggiore non dovuto.

Per far fronte a questo tipo di errori, è possibile per il contribuente presentare riscorso amministrativo in autotutela.

Il ricorso va presentato entro 90 giorni dalla data di notifica del provvedimento. L’atto di impugnazione deve contenere determinate caratteristiche, pena la nullità.

Nello specifico deve contenere:

  • I dati personali come da documenti d’identità del ricorrente;
  • Il numero dell’atto, o degli atti da impugnare;
  • Le motivazioni del ricorso;
  • I termini massimi di risposta che possono essere 30 giorni

E’ fondamentale stabilire una data massima di risposta da parte dell’ente, in quanto potrebbero anche non rispondere mai. La data mette un termine, dopo il quale il ricorrente può anche agire giudizialmente contro l’ente.

Il ricorso può essere mandato o tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o tramite PEC (preferibile) alla sede di apaprtenenza relativo alla residenza o al domicilio fiscale. E’ possibile consultare la sede di appartenenza sul sito INPS https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?iIDservizio=2376 .

La PEC o la Raccomandata generano una ricevuta la quale dovrà essere conservata, la quale attesterà a lungo termine la data certa dell’invio del ricorso.

Nel malaugurato caso che l’INPS non risponda, dovrà essere presentato ricorso al Giudice. Qui ci saranno fino a tre gradi di giudizio (I grado, appello e Cassazione). Nel caso l’ente potrebbe anche non procedere fino ai tre gradi, come anche il contribuente, facendo diventare la sentenza definitiva.

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